Ricevere una diagnosi psichiatrica (dalla più comune come un " disturbo d'ansia" , alle più ingombranti come quelle che vengono definite "disturbi di personalità" ) crea nella persona che la riceve e nel suo assetto di vita una serie di mutamenti non privi di effetti collaterali, sia a livello individuale che sociale.
Una volta ricevuta la diagnosi, la persona inizia a guardarsi tendenzialmente solo attraverso quella etichetta, che diventa il nesso organizzatore della propria storia. Nesso che tende a minimizzare o far scomparire le altre caratteristiche personali, enfatizzando invece tutto quello che viene a trovarsi in un rapporto di causa effetto con l'etichetta diagnostica. La diagnosi diventa presto il nuovo " costruttore di realtà" inglobando e determinando le definizioni di sė stessi e della propria identità attraverso il copione di comportamenti e modi di sentire prescritti dalla diagnosi stessa. Copione che tende a imprigionare la persona dentro il loop di un modello di malattia, di disagio e di impoverimento , sottraendole risorse invece che aggiungerne. Da tutte le possibilità umane che fino al momento della diagnosi giacevano custodite dentro quella storia, con la diagnosi ne viene estratta e selezionata una sola: quella della diversità, della devianza, del disturbo, della malattia.
Questo passaggio quasi invisibile ad occhi inesperti, crea degli effetti molto subdoli, tanto che le persone non si accorgono neanche di questo slittamento che hanno subito nella propria coscienza. Fanno propria la diagnosi ricevuta e danno in mano la propria storia a chi non vuole sforzarsi di fare altro che replicare etichette per standardizzare la vastità dell'esperienza umana ad un unico denominatore, per altro con effetti molto iatrogeni.
La diagnosi è un atto di potere. E questo non dovrebbe mai essere dimenticato da chi la pratica. Un atto di potere in grado di segnare una biografia per sempre. Verrebbe quasi da dire: attenzione a chi e cosa si decide di credere. Perchė l'inganno che tutti noi a volte subiamo ė quello di credere più alle etichette che alle nostre infinite possibilità. E più sono " scientifiche" più ci devastano.
E se, invece, provassimo a invertire questo processo? Se, invece di escogitare sempre di nuove, ancora più "scientifiche" e incancellabili, quasi fossero dei tatuaggi indelebili, iniziassimo a decostruirle e farle scomparire?
Se, tanto per fare un esempio, "essere ansiosi" iniziasse a essere, nella cultura che costruiamo, sinonimo di "fremere di piacevole attesa" o "preannunciatore di sensazioni magiche" o altre definizioni altrettanto creative in grado di aprire universi semantici differenti , tutto il nostro modo di percepirsi e percepire la realtà intorno a noi, potrebbe improvvisamente cambiare. E rivelare qualcosa di inaspettato.
Che la nostra storia ė fatta dalle parole con cui la costruiamo. E allora, forse ci verrebbe più spesso in mente che vale la pena di cambiarle. Inventare di nuove e più creative e originali, invece di subire quelle che gli altri hanno già pronte nel cassetto per noi. Che oggi stanno diventando obsolete e vuote perché prive di magia e immaginazione.