Come può nascere in alcune persone l’idea angosciosa che il proprio corpo sia sbagliato, e come è possibile continuare a crederlo anche quando, a detta di altri, è perfetto?
Il corpo reale, immaginato o desiderato, può essere l’origine, ma anche il punto di arrivo di variegate forme di disagio psicologico: se l’idea che una persona ha di sé non combacia con l’immagine del corpo che vorrebbe, ciò può alimentare sentimenti di insoddisfazione e mancanza di autostima, incrinando il senso della propria identità e cancellando ogni evidenza contraria.
L’aspetto di sé rappresenta in molti casi l’elemento con cui ci si propone al giudizio dell’altro: immagine da contemplare o più spesso da temere. A volte però l’altro più severo è l’altro se stesso.
Il senso di inadeguatezza per il proprio corpo tende a manifestarsi, in prima battuta, attraverso il controllo alimentare.
Il ricorso alla dieta, tendenza così alla moda da rappresentare ormai la norma tra le donne adulte, risulta sempre più diffuso anche tra le preadolescenti: cambiare prospettiva, de-situarsi dal proprio punto di vista per “guardarsi dal di fuori” è un processo che, nel ciclo di vita, pare inizi sempre prima. Ne sono un esempio i comportamenti di controllo alimentare e corporeo, che si esprimono con la dieta e traducono le prime voci di insofferenza per un corpo distante da quello desiderato, ma soprattutto sentito come ancora impreparato a diventare quello della “donna” cui la biologia allude. Diventare “donna” significa infatti autoprescriversi, dopo averli scelti e selezionati, quei copioni di comportamento le cui caratteristiche sembrano saturare al meglio l’idea di femminilità, copioni che spesso replicano le forme più convenzionali dell’essere donna.
Il senso di sicurezza per le parti di sé viene così preso a prestito attraverso la mimesi. Ma la replica di un repertorio di comportamenti non è ancora azione, poiché manca la capacità di far propria la matrice generativa che suggerisce quei comportamenti e che ne genera anche emotivamente il vissuto. L’apprendimento di modelli di comportamento e l’esperienza che un’adolescente fa di se stessa nel contesto delle relazioni cui attribuisce valore, la rendono pertanto estremamente suscettibile a quelle forme dell’identità che percepisce come miglior garanzia di successo e felicità personale.
Con l’espressione “disagi dell’identità corporea” si fa riferimento ad una variegata gamma di manifestazioni accomunate dalla tendenza a far dipendere la stima di sé dal corpo e dall’insoddisfazione per il peso o per le sue forme. Pur così diverse tra loro, la condizione anoressica, bulimica ed obesa condividono la posta in gioco: la bilancia come prova del valore di sé.
Il problema sembra non avere nulla a che fare con il corpo!
In simili casi la posta in gioco non è data dai chili (in difetto o in eccesso), quanto dal senso della propria identità. La persona che vive un disagio corporeo non soffre per il proprio corpo, o per come è fatto; soffre il proprio corpo e la sua condizione. Il problema promana dal corpo, ma non sta nel corpo, né lo riguarda. Riguarda piuttosto la sua controparte psicologica, ovvero le rappresentazioni o immagini di sé, quelle attraverso le quali la persona valuta se stessa e attribuisce un significato (sovente negativo) alla propria apparenza fisica. Di qui l’incertezza per il proprio senso dell’identità e valore.
Qualsiasi sigla da manuale evade le complessità psicologiche individuali…
L’indagine di alcuni processi implicati nella formazione della consapevolezza del sé corporeo consente una miglior comprensione di quelle situazioni in cui la frattura tra “corpo in idea” (ovvero le idee su come sia e appaia il proprio corpo) e “corpo ideale” genera importanti forme di disagio psicologico, tali da giungere all’attenzione clinica. Ma dal momento che il problema non è legato al corpo, non troveremo lì nemmeno le sue soluzioni. Non è possibile comprendere il disagio corporeo se prima non ci si occupa dei modi in cui viene inteso il corpo stesso e dei filtri che vengono usati per leggerlo.
Lo Psicoterapeuta Interazionista si propone di ridefinire tali afflizioni, chiamate convenzionalmente anoressia, bulimia, dismorfofobia e altro, in modo nuovo e originale, offrendo alla persona uno stimolante cambio di paradigma.